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Archivio mensile:gennaio 2010

AVATAR

James Cameron si conferma un regista capace di fondere spettacolarità e messaggio    
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Locandina Avatar


Jake Sully è un marine costretto su una sedia a rotelle che accetta di
trasferirsi sul pianeta Pandora (distante 44 anni luce dalla Terra) in
sostituzione del fratello morto. Costui era uno scienziato la cui
missione era quella di esplorare il pianeta mediante un avatar. Essendo
l’atmosfera del pianeta tossica per gli umani sono stati creati degli
esseri simili in tutto e per tutto ai nativi che possono essere
?guidati’ dall’umano che si trova al sicuro dentro la base. Pandora
però non è solo un luogo da studiare. È soprattutto un enorme
giacimento di un minerale prezioso per la Terra su cui la catastrofe
ecologica ha ridotto a zero le fonti di energia. Uomini d’affari avidi
e militari si trovano così uniti nel tentativo di spoliazione del
pianeta. C’è però un problema: gli indigeni Na’vi non hanno alcuna
intenzione di farsi colonizzare. Il compito iniziale dell’avatar di
Jake sarà quello di conoscerne usi e costumi e di farsi accettare
all’interno delle loro comunità. Sarà così in grado di riferire se sia
possibile sottometterli. Jake conosce così Neytiri, una guerriera Na’vi
figlia del capo tribù. Da lei impara a divenire un guerriero molto
diverso dal marine che è stato e se ne innamora ricambiato. Da quel
momento la sua visione dell’impresa cambia.


James Cameron è tornato e, ancora una volta, ha lanciato la sua sfida molto personale al mondo del cinema. Così come in
Titanic, snobbato a torto dalla critica più vetero-conservatrice, anche in Avatar
decide di basare l’impresa su una sceneggiatura che a un primo sguardo
non può non apparire decisamente semplice (anche se chi ha fatto facili
e ironici riferimenti a
Pocahontas
ha dimenticato che la giovane indiana d’America visse, nella sua storia
d’amore con John Rolfe, il percorso esattamente opposto a quello qui
narrato).

Cameron si rivela, proprio grazie agli stereotipi
narrativi di cui fa ampio uso, un vero autore. Potrebbe sembrare un
ossimoro ma non è così. Perché pesca citazioni a piene mani dalla
storia del cinema (non rinunciando, ad esempio, a citarsi richiamando
in servizio la Sigourney Weaver, un tempo Ripley, offrendole un’entrata
in scena provocatoria con sigaretta accesa o attingendo per il
personaggio di Tsu’tey al Vento nei Capelli di
Balla coi lupi)
ma riesce a trasferirle nelle proprie ossessioni narrative. Che sono
quelle (tanto per citarne solo alcune) della scoperta di ?Nuovimondi’
da
Abyss al già citato Titanic o del cosa significhi sentirsi alieno e sul cosa accade quando la prospettiva si rovescia.

Ma è soprattutto il mistero delle dinamiche organiche naturali e del
loro rapporto con la Scienza e con i suoi prodotti (siano essi macchine
come in
Terminator
o corpi che sono al contempo un sé e un ?altro da sé’ come gli avatar)
che lo affascina. Non facendogli però dimenticare che al pubblico
(anche al più vasto, indispensabile per riassorbire gli enormi capitali
investiti e trarre un profitto) non è sufficiente offrire la tecnologia
più avanzata (che qui non manca). Non basta ?stupirlo’.

Anche se nel modo più accessibile è fondamentale suscitare un pensiero. In Titanic
ci si immergeva alla ricerca di un tesoro e se ne riportava invece una
traccia di memoria (il ritratto) che spingeva poi lo spettatore a
interrogarsi su una nave che diveniva, senza superflue sottolineature,
il simbolo della divisione in classi di una società. In
Avatar,
pensato 15 anni fa ma realizzato negli ultimi 4, la recente lezione
della guerra in Iraq lascia le sue tracce profonde. Ancor più del
discorso ecologico che sottende tutto il film (con la sua visione di
un’energia panica da rispettare) è quello sulla facile etichettatura di
nemici applicabile a coloro che posseggono le fonti energetiche che
abbisognano ai più forti che maggiormente segna la narrazione. È storia
di sempre, si dirà, già vista (al cinema) e sentita. Ma ci vogliono
registi capaci di osare, consapevoli che tutte le storie sono già state
narrate ma che alcune meritano di essere ribadite con tutta la forza
della spettacolarità che è possibile mettere in campo.

Avatar
non sarà il film che rivoluzionerà la storia del cinema ma Cameron
merita rispetto e ammirazione. Sa perché e su quali temi rischiare, in
un’epoca in cui la grande maggioranza cerca l’incasso sicuro. Onore al
merito.

 
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Pubblicato da su 18 gennaio 2010 in Senza categoria

 

Hachiko – il tuo migliore amico

Hachiko – il tuo migliore amico (Hachiko: A Dog’s Story)

Hachiko - il tuo migliore amico - visualizza locandina ingrandita

Fotografia: Ron Fortunato
Montaggio: Kristina Boden
Produzione: Grand Army Entertainment, Inferno Distribution, Shochiku Kinema Kenkyû-jo
Distribuzione: Lucky Red
Paese: USA 2009
Uscita Cinema: 30/12/2009
Genere: Drammatico
Durata: 93 Min
Formato: Colore
Sito Italiano

Trama del film Hachiko – il tuo migliore amico:
Film
drammatico basato sulla storia vera di un fedele cane di nome Hachiko.
Questo amico molto speciale accompagnava ogni giorno il suo padrone,
professore universitario, alla stazione ferroviaria e ritornava a
prenderlo quando rientrava dalla giornata lavorativa.
Purtroppo il suo padrone un giorno morì di arresto cardiaco mentre era
all’università. Hachiko fedelmente ritornò alla stazione il giorno
successivo, e ogni giorno per i nove anni successivi, in attesa del suo
amato padrone.
Con il passare del tempo, durante la sua visita quotidiana, Hachiko
tocca la vita di molti che lavorano nelle vicinanze. Insegna così alla
popolazione locale l’amore, la compassione e soprattutto l’irriducibile
fedeltà.
Oggi, una statua in bronzo di Hachiko siede nel suo posto di attesa al
di fuori della stazione di Shibuya in Giappone come un ricordo
permanente della sua devozione e di amore.

Soggetto: Remake del film "Hachiko Monogatari" (1987) di Seijirô Kôyama.

Note:
Festival Internazionale del film di Roma 2009 sezione Anteprima – Alice nella città.

 
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Pubblicato da su 18 gennaio 2010 in Senza categoria

 

Sherlock Holmes

Ritorno alle origini del personaggio di Conan Doyle per un plot originale in salsa action e steampunk

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Locandina Sherlock Holmes


Sul finire dell’Ottocento, Londra è una città affascinante e
pericolosa. Le novità tecnologiche attirano i cittadini più curiosi, ma
il richiamo per l’occulto e il soprannaturale è altrettanto forte.
Quando Sherlock Holmes e il fido dottor Watson consegnano l’assassino
di giovani donne Lord Blackwood alla giustizia e, dopo aver assistito
all’esecuzione capitale, assistono non di meno alla sua apparente
resurrezione, Holmes è felice di potersi finalmente interessare di
qualcosa alla sua portata. Tanto più che si è ripresentata a lui la
bella Irene Adler, chiedendo il ritrovamento di un uomo che si scoprirà
interrato nella bara di Blackwood. I casi si intrecciano, si
aggrovigliano, sporcano gli abiti di fumo e di avventura.


Guy Ritchie punta su un indirizzo ambizioso: 221B, Baker Street. Lente
d’ingrandimento alla mano, smette di farsi sedurre dall’eccentricità
per accumulazione (i tanti personaggi delle pellicole precedenti) e la
trova, purissima, per “concentrazione” nella figura di Sherlock Holmes,
così come fece capolino inizialmente sulle pagine di Conan Doyle, prima
di rifarsi trucco e parrucco in seguito alle ingerenze dei lettori,
della storia, della leggenda e del cinema stesso. Un uomo di
straordinario acume e ugual passione per l’azione, ordinato mentalmente
come nessun altro (se n’è fatto un “metodo”), che vive da bohemien nel
disordine dei ritagli di giornale (la cronaca scandalistica), della
polvere (bianca?) e dell’assenza di regolari abitudini, scazzottando
alla bisogna a mani nude. Questo ritorno alle origini del personaggio
–benché poi la sceneggiatura segua un plot originale- è una prima
evidenza a favore del lavoro di Ritchie.


Seconda, ma intimamente connessa, viene la scelta degli interpreti: il
nuovo Holmes emerge, coerente e vigoroso, dalla zona di intersezione e
sovrapposizione tra le caratteristiche romanzesche del detective di
Conan Doyle e quelle reali e “biofilmografiche” di Robert Downey Jr.,
talento istrionico, uomo intelligente e contraddittorio, paladino
iron(ico), non privo di invadenti fantasmi e noti (alle cronache)
trascorsi. Al suo fianco, Jude Law è un dottor Watson con personalità,
un passo indietro in quanto a genialità e spavalderia ma complice
sincero, coinquilino avvenente, braccio (destro) e spalla (fuori e
dentro la finzione) che valgono bene una scenata di gelosia, un tocco
di isterismo, una manciata di voluta ambiguità. Rachel Mc Adams,
infine, è “la donna”, furba e traditrice, unica fonte femminile di
interesse per il nostro, in quanto caso irrisolvibile, abitante di quel
territorio del diavolo – la criminalità elegante e scaltra – con cui il
protagonista flirta tanto piacevolmente. Ma uno più uno, questa volta,
non fa un due pieno.

Qualche
spacconeria di sceneggiatura, non poche lungaggini, dialoghi che
promettono ma non conquistano, fermano lo spettatore dal fregarsi le
mani e gli lasciano sul viso un sorrisetto sarcastico. Alla Holmes.


Sherlock Holmes è un personaggio letterario creato da Sir Arthur Conan Doyle alla fine del XIX secolo: protagonista di romanzi e racconti appartenenti al genere letterario del giallo deduttivo (il cui iniziatore fu Edgar Allan Poe con il suo Auguste Dupin), appare per la prima volta in Uno studio in rosso (1887).


« […]
il suo sguardo era acuto e penetrante; e il naso sottile aquilino
conferiva alla sua espressione un’aria vigile e decisa. Il mento era
prominente e squadrato, tipico dell’uomo d’azione. Le mani,
invariabilmente macchiate d’inchiostro e di scoloriture provocate dagli
acidi, possedevano un tocco straordinariamente delicato, come ebbi
spesso occasione di notare quando lo osservavo maneggiare i fragili
strumenti della sua filosofia. »
       « Quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità. »

«  Sherlock Holmes tolse dalla mensola del caminetto una bottiglia e una siringa ipodermica da un lucido astuccio di marocchino.
Con dita lunghe, bianche e nervose, fissò all’estremità della siringa
l’ago sottile e si rimboccò la manica sinistra della camicia. I suoi
occhi si posarono per qualche attimo pensierosi sull’avambraccio e sul
polso solcati di tendini e tutti punteggiati e segnati da innumerevoli
punture. Infine si conficcò nella carne la punta acuminata, premette
sul minuscolo stantuffo, poi, con un profondo sospiro di soddisfazione,
ricadde a sedere nella poltrona di velluto. 
»



« Non
c’è alcun ramo delle scienze investigative così poco praticato, eppure
tanto importante, qual è l’arte d’interpretare le orme. »
 
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Pubblicato da su 18 gennaio 2010 in Senza categoria